La Turchia stermina i kurdi: almeno 100 morti in cinque giorni
Al quinto giorno di offensiva militare contro il Kurdistan, le autorità turche riferiscono di 102 miliziani uccisi. Ma le associazioni locali parlano di molte vittime civili. E Ankara accusa il Pkk di impedirle di combattere l’Isis
Roma, 21 dicembre 2015, Nena News - Sono già 102 i militanti uccisi nel Kurdistan turco da quando cinque giorni fa Ankara ha lanciato una massiccia offensiva contro il PKK nel sud est del paese. Lo riferiscono fonti governative all’AFP, secondo le quali anche cinque civili e un soldato sarebbero morti nei rastrellamenti portati avanti dai militari turchi nelle aree residenziali di Cizre, Silopi, Sur, Yuksekowa e nella periferia di Diyarbakir.
L’esercito di Ankara, forte di 10 mila soldati e di decine di cingolati, mercoledì ha lanciato la sua offensiva contro il PKK – movimento terroristico secondo UE, Stati Uniti e Turchia – con la scusa di voler liberare “le aree occupate dai terroristi, che paralizzano la quotidianità di quei centri e ne intimidiscono gli abitanti”. Una mossa volta anche a distruggere gli arsenali della guerriglia, con le autorità turche che, trionfanti, hanno dichiarato di aver sequestrato nei giorni scorsi 2.240 armi, 10 tonnellate di esplosivi e 10 mila bombe molotov nei “covi” dei miliziani.
Eppure,
molti additano alle operazioni militari di Ankara come a una punizione collettiva della popolazione curda, sottolineando che l’esercito si accanisce con impunità su tutti gli abitanti e riduce in macerie ampie parti delle città nelle quali entra. Un uso “sproporzionato della forza” denunciato, tra gli altri, da Salahettin Demirtas, leader del partito pro-curdo HDP: “Una operazione con una tale quantità di forze, con bombardamenti delle città e l’invio di tutti questi soldati contro le persone, dimostra solamente quanto sei impotente” ha detto ieri ai giornalisti, alludendo al presidente turco Erdogan. Il governo turco gli ha risposto subito, accusando Demirtas di essere il portavoce del PKK e di portare avanti una politica di “provocazione, caos, sangue e terrore”, come ha dichiarato il premier turco Davutoglu.
Intanto, nel Kurdistan turco si continua a fuggire dalle aree dei combattimenti:
circa 200 mila persone avrebbero lasciato le proprie case, mentre quelli che restano si ritrovano senza acqua, elettricità, cibo, medicinali. Molte associazioni locali hanno accusato Ankara di aprire il fuoco indistintamente su tutti, spiegando che da luglio scorso, da quando si è rotta la tregua tra il PKK e l’esercito turco,
i soldati avrebbero già ucciso oltre 200 civili. Ma Ankara nega, dichiarando che “la priorità delle operazioni effettuate nelle città di Cizre e Silopi è quella di garantire la sicurezza di entrambe le nostre forze armate e dei civili”.
Operazioni che, guarda caso, starebbero impedendo alla Turchia di combattere l’Isis: lo ha spiegato un funzionario del governo di Ankara al portale Middle East Eye, affermando che “non possiamo dirigere le nostre risorse contro l’Isis in modo efficace a causa del PKK, soprattutto nelle regioni di confine”. Risorse mai veramente utilizzate contro lo Stato Islamico,
per una relazione di complicità sempre più denunciata da giornalisti e analisti. Gli unici ad aver agito contro l’Isis sono stati proprio i curdi, ma secondo il funzionario di Ankara “avrebbero appreso molte tecniche mentre combattevano (l’Isis) nel nord della Siria".
Fonte: Nena news (Agenzia di stampa vicino Oriente)
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